miércoles, 24 de junio de 2009

Plegaria de un Adolescente



Cada día nos trae un nuevo comienzo.
Decisiones que debemos tomar.
Yo soy el único que escoge
el camino que seguiré.


Yo puedo elegir
entre el camino de la vida
que lleva al gran éxito,
o viajar por el oscuro camino
que conduce a la gran angustia.

Por favor abre mis ojos, amado SEÑOR.
Que pueda ver claramente.

Ayúdame a definir lo que es correcto.
Saca lo mejor que hay en mi.

Ayúdame, Señor, a decir "No"
cuando la tentación venga a mi.

Que yo pueda mantener mi cuerpo limpio
y vivir cada día a plenitud;
y así, cuando mis años de adolescente terminen,
yo se que voy a ver que la vida
se vive de la mejor manera, Contigo,
caminando junto a mi.

Identificarse totalmente con Cristo, pide el Papa a presbíteros en Año Sacerdotal


VATICANO, 24 Jun. 09 / 09:33 am (ACI)
Al referirse hoy en la Audiencia General de los miércoles al Año Sacerdotal que inauguró el pasado 19 de junio, el Papa Benedicto XVI resaltó que los presbíteros, a ejemplo de San Juan María Vianney y San Pablo, deben identificarse totalmente con Cristo, renovando además su aspiración a la perfección espiritual.

El Pontífice explicó las razones por las que ha querido celebrar este especial Año Sacerdotal, en ocasión del 150 aniversario de la muerte del Santo Cura de Ars, "que aparentemente no hizo nada de extraordinario". "La Providencia divina ha hecho que su figura se uniese a la de San Pablo. (...) Si los dos santos siguieron caminos muy diferentes,(...) existe sin embargo una cosa fundamental que los une: su identificación total con el propio ministerio, su comunión con Cristo", añadió.

Seguidamente el Santo Padre señaló que "el objetivo de este Año Sacerdotal es renovar en cada uno de los presbíteros la aspiración a la perfección espiritual, de la que depende en gran medida la eficacia de su ministerio. Asimismo, esta iniciativa servirá para ayudar a los sacerdotes y a todo el Pueblo de Dios a volver a descubrir y reforzar la conciencia del don de gracia extraordinario e indispensable que supone el ministerio ordenado para quien lo ha recibido, para toda la Iglesia y para el mundo, que sin la presencia real de Cristo estaría perdido".

Para el Papa "en un mundo en el que la visión común de la vida comprende cada vez menos lo sagrado, donde la 'funcionalidad' es la única y decisiva categoría, la concepción católica del sacerdocio podría correr el riesgo de perder su consideración natural, a veces incluso dentro de la conciencia eclesial".

Benedicto XVI precisó luego que existen actualmente dos concepciones del sacerdocio, "que en realidad no se contraponen: una social-funcional que define la esencia del sacerdocio con el concepto de 'servicio' y otra sacramental-ontológica, que (...) considera que el ser ministro está determinado por un don concedido por el Señor a través de la mediación de la Iglesia, cuyo nombre es sacramento".

Tras preguntarse "¿qué significa evangelizar para los sacerdotes y en qué consiste el primado del anuncio?", el Papa resaltó que "el anuncio coincide con la persona misma de Cristo; (...) el presbítero no se puede considerar 'dueño' de la palabra, sino siervo".

"Sólo la participación en el sacrificio de Cristo, en su 'chenosi', (...) y la obediencia dócil a la Iglesia, hace auténtico el anuncio. El sacerdote es siervo de Cristo, en el sentido de que su existencia, configurada a El ontológicamente, asume un carácter esencialmente relacional: es 'in' Cristo, 'per' Cristo y 'con' Cristo al servicio de los seres humanos. Precisamente porque pertenece a Cristo, el presbítero está totalmente al servicio de ellos", explicó el Santo Padre.

Finalmente el Papa expresó su deseo de que "el Año Sacerdotal lleve a todos los sacerdotes a identificarse totalmente con Cristo crucificado y resucitado, para que a imitación de San Juan Bautista, de quien hoy celebramos la natividad, estén dispuestos a 'disminuir' para que Él crezca, y así, siguiendo también el ejemplo del Cura de Ars, perciban constantemente y en profundidad la responsabilidad de su misión, que es signo y presencia de la misericordia infinita de Dios".

Audiencia General del Papa Benedicto XVI sobre el Año Sacerdotal. Texto original en Italiano


Cari fratelli e sorelle,

venerdì scorso 19 giugno, Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù e Giornata tradizionalmente dedicata alla preghiera per la santificazione dei sacerdoti, ho avuto la gioia d’inaugurare l’Anno Sacerdotale, indetto in occasione del centocinquantesimo anniversario della “nascita al Cielo” del Curato d’Ars, san Giovanni Battista Maria Vianney. Ed entrando nella Basilica Vaticana per la celebrazione dei Vespri, quasi come primo gesto simbolico, mi sono fermato nella Cappella del Coro per venerare la reliquia di questo santo Pastore d’anime: il suo cuore. Perché un Anno Sacerdotale? Perché proprio nel ricordo del santo Curato d’Ars, che apparentemente non ha compiuto nulla di straordinario?

La Provvidenza divina ha fatto sì che la sua figura venisse accostata a quella di san Paolo. Mentre infatti si va concludendo l’Anno Paolino, dedicato all’Apostolo delle genti, modello di straordinario evangelizzatore che ha compiuto diversi viaggi missionari per diffondere il Vangelo, questo nuovo anno giubilare ci invita a guardare ad un povero contadino diventato umile parroco, che ha consumato il suo servizio pastorale in un piccolo villaggio. Se i due Santi differiscono molto per i percorsi di vita che li hanno caratterizzati – l’uno è passato di regione in regione per annunciare il Vangelo, l’altro ha accolto migliaia e migliaia di fedeli sempre restando nella sua piccola parrocchia -, c’è però qualcosa di fondamentale che li accomuna: ed è la loro identificazione totale col proprio ministero, la loro comunione con Cristo che faceva dire a san Paolo: “ Sono stato crocifisso con Cristo. Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me ” (Gal 2,20). E san Giovanni Maria Vianney amava ripetere: “Se avessimo fede, vedremmo Dio nascosto nel sacerdote come una luce dietro il vetro, come il vino mescolato all’acqua”. Scopo di questo Anno Sacerdotale come ho scritto nella lettera inviata ai sacerdoti per tale occasione - è pertanto favorire la tensione di ogni presbitero “verso la perfezione spirituale dalla quale soprattutto dipende l’efficacia del suo ministero”, e aiutare innanzitutto i sacerdoti, e con essi l’intero Popolo di Dio, a riscoprire e rinvigorire la coscienza dello straordinario ed indispensabile dono di Grazia che il ministero ordinato rappresenta per chi lo ha ricevuto, per la Chiesa intera e per il mondo, che senza la presenza reale di Cristo sarebbe perduto.

Indubbiamente sono mutate le condizioni storiche e sociali nelle quali ebbe a trovarsi il Curato d’Ars ed è giusto domandarsi come possano i sacerdoti imitarlo nella immedesimazione col proprio ministero nelle attuali società globalizzate. In un mondo in cui la visione comune della vita comprende sempre meno il sacro, al posto del quale, la “funzionalità” diviene l’unica decisiva categoria, la concezione cattolica del sacerdozio potrebbe rischiare di perdere la sua naturale considerazione, talora anche all’interno della coscienza ecclesiale. Non di rado, sia negli ambienti teologici, come pure nella concreta prassi pastorale e di formazione del clero, si confrontano, e talora si oppongono, due differenti concezioni del sacerdozio. Rilevavo in proposito alcuni anni or sono che esistono “da una parte una concezione sociale-funzionale che definisce l’essenza del sacerdozio con il concetto di ‘servizio’: il servizio alla comunità, nell’espletamento di una funzione… Dall’altra parte, vi è la concezione sacramentale-ontologica, che naturalmente non nega il carattere di servizio del sacerdozio, lo vede però ancorato all’essere del ministro e ritiene che questo essere è determinato da un dono concesso dal Signore attraverso la mediazione della Chiesa, il cui nome è sacramento” (J. Ratzinger, Ministero e vita del Sacerdote, in Elementi di Teologia fondamentale. Saggio su fede e ministero, Brescia 2005, p. 165). Anche lo slittamento terminologico dalla parola “sacerdozio” a quelle di “servizio, ministero, incarico”, è segno di tale differente concezione. Alla prima, poi, quella ontologico-sacramentale, è legato il primato dell’Eucaristia, nel binomio “sacerdozio-sacrificio”, mentre alla seconda corrisponderebbe il primato della parola e del servizio dell’annuncio.

A ben vedere, non si tratta di due concezioni contrapposte, e la tensione che pur esiste tra di esse va risolta dall’interno. Così il Decreto Presbyterorum ordinis del Concilio Vaticano II afferma: “È proprio per mezzo dell'annuncio apostolico del Vangelo che il popolo di Dio viene convocato e adunato, in modo che tutti… possano offrire se stessi come «ostia viva, santa, accettabile da Dio» (Rm 12,1), ed è proprio attraverso il ministero dei presbiteri che il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto nell'unione al sacrificio di Cristo, unico mediatore. Questo sacrificio, infatti, per mano dei presbiteri e in nome di tutta la Chiesa, viene offerto nell'Eucaristia in modo incruento e sacramentale, fino al giorno della venuta del Signore” (n. 2).

Ci chiediamo allora: “Che cosa significa propriamente, per i sacerdoti, evangelizzare? In che consiste il cosiddetto primato dell’annuncio”?. Gesù parla dell’annuncio del Regno di Dio come del vero scopo della sua venuta nel mondo e il suo annuncio non è solo un “discorso”. Include, nel medesimo tempo, il suo stesso agire: i segni e i miracoli che compie indicano che il Regno viene nel mondo come realtà presente, che coincide ultimamente con la sua stessa persona. In questo senso, è doveroso ricordare che, anche nel primato dell’annuncio, parola e segno sono indivisibili. La predicazione cristiana non proclama “parole”, ma la Parola, e l’annuncio coincide con la persona stessa di Cristo, ontologicamente aperta alla relazione con il Padre ed obbediente alla sua volontà. Quindi, un autentico servizio alla Parola richiede da parte del sacerdote che tenda ad una approfondita abnegazione di sé, sino a dire con l’Apostolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Il presbitero non può considerarsi “padrone” della parola, ma servo. Egli non è la parola, ma, come proclamava Giovanni il Battista, del quale celebriamo proprio oggi la Natività, è “voce” della Parola: “ Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri ” (Mc 1,3).

Ora, essere “voce” della Parola, non costituisce per il sacerdote un mero aspetto funzionale. Al contrario presuppone un sostanziale “perdersi” in Cristo, partecipando al suo mistero di morte e di risurrezione con tutto il proprio io: intelligenza, libertà, volontà e offerta dei propri corpi, come sacrificio vivente (cfr Rm 12,1-2). Solo la partecipazione al sacrificio di Cristo, alla sua chènosi, rende autentico l’annuncio! E questo è il cammino che deve percorrere con Cristo per giungere a dire al Padre insieme con Lui: si compia “non ciò che io voglio, ma ciò che tu vuoi” (Mc 14,36). L’annuncio, allora, comporta sempre anche il sacrificio di sé, condizione perché l’annuncio sia autentico ed efficace.

Alter Christus, il sacerdote è profondamente unito al Verbo del Padre, che incarnandosi ha preso la forma di servo, è divenuto servo (cfr Fil 2,5-11). Il sacerdote é servo di Cristo, nel senso che la sua esistenza, configurata a Cristo ontologicamente, assume un carattere essenzialmente relazionale: egli è in Cristo, per Cristo e con Cristo al servizio degli uomini. Proprio perché appartiene a Cristo, il presbitero è radicalmente al servizio degli uomini: è ministro della loro salvezza, della loro felicità, della loro autentica liberazione, maturando, in questa progressiva assunzione della volontà del Cristo, nella preghiera, nello “stare cuore a cuore” con Lui. È questa allora la condizione imprescindibile di ogni annuncio, che comporta la partecipazione all’offerta sacramentale dell’Eucaristia e la docile obbedienza alla Chiesa.

Il santo Curato d’Ars ripeteva spesso con le lacrime agli occhi: “Come è spaventoso essere prete!”. Ed aggiungeva: “Come è da compiangere un prete quando celebra la Messa come un fatto ordinario! Com’è sventurato un prete senza vita interiore!”. Possa l’Anno Sacerdotale condurre tutti i sacerdoti ad immedesimarsi totalmente con Gesù crocifisso e risorto, perché, ad imitazione di san Giovanni Battista, siano pronti a “diminuire” perché Lui cresca; perché, seguendo l’esempio del Curato d’Ars, avvertano in maniera costante e profonda la responsabilità della loro missione, che è segno e presenza dell’infinita misericordia di Dio. Affidiamo alla Madonna, Madre della Chiesa, l’Anno Sacerdotale appena iniziato e tutti i sacerdoti del mondo.

¡Soy sacerdote! . Artículo del P. Sergio G. Román. Fuente: DESDE LA FE


Soy sacerdote



El obispo impuso sus manos sobre mí y me dio la potestad de ser sacerdote para siempre. Me marcaste, Señor, con un sello indeleble, más mío que mi piel, que mi cuerpo mismo. Hasta la eternidad seré sacerdote. Tu sacerdote.

Soy sacerdote. ¡Soy sacerdote!

La realidad de un sueño por muchos años anhelado; el convencimiento, por fin, de que es cierta la vocación que yo acepté, cultivé y cuidé desde el momento en que creí escuchar tu voz que me llamaba a seguirte, haciendo a un lado mis planes personales para hacer de tu voluntad mi único plan de vida... ¡para siempre!

Para ofrecer el sacrificio



Soy sacerdote, con el mismo sacerdocio de tu Unigénito Jesucristo que generosamente me comparte para ofrecer, en su persona, el único sacrificio de amor puro totalmente agradable para ti. En la persona de Cristo celebro cada Misa como memorial de su Muerte y Resurrección.



Para absolver



Soy sacerdote y tengo el poder divino de declarar perdonado en la tierra lo que tú perdonas en el cielo. Con el Espíritu de tu Hijo y en el nombre de la Trinidad Santa reconcilio a mis hermanos contigo y los regreso a la unidad con la Iglesia Santa. ¡Maravilloso! Pusiste en mis humanas manos las llaves que abren las puertas de los cielos y me hiciste capaz de recibir con un amor paternal como el tuyo a los hijos pródigos cansados de su hambre insatisfecha del alimento de los cerdos. Yo pecador, en el nombre de Dios, declaro perdonados los pecados de los hombres mis hermanos.



Para sanar



Como signo de la verdad del Evangelio, Jesús dio a los apóstoles el mandato de curar a los enfermos. Soy sacerdote, y como ellos, impongo mis manos sobre los enfermos y los unjo con el Óleo Santo para dar en tu nombre la salud del alma y la del cuerpo si conviene. En la Santa Unción a los enfermos doy tu gracia y tu fuerza para luchar contra la enfermedad, para buscar la vida de este mundo y aquella otra vida del más allá, la vida verdadera.



Para hablar



Me llamaste, Señor, para ser tu vocero oficial. Mi vocación es dar a mis hermanos la Palabra de tu Hijo, tu misma Palabra. He recibido la misión de ser maestro, como Jesús, de los fieles mis hermanos. Quiero, Señor, con tu ayuda, no caer nunca en la tentación de predicarme a mí mismo, ni de predicar mis propias palabras disfrazadas de Evangelio. Quiero ser intérprete fiel del único Evangelio de tu Hijo. Y quiero, con tu ayuda, predicar más con mi vida que con mi boca.



Soy pastor



Me confiaste, Señor, tus ovejas. Soy pastor como tu Hijo y con tu Hijo. Humanamente me asusta eso de dar mi vida por las ovejas, pero poco a poco voy comprendiendo que si de veras las amo y con tu gracia divina es posible, por lo pronto, gastar mi vida, pasar mis años, cuidando a tus ovejas.

Quiero ser el buen pastor que conoce a sus ovejas por su nombre, que las llama y ellas lo siguen porque conocen su voz. ¡Que mi voz no sea otra que la de Cristo el verdadero Buen Pastor!



Todos me llaman Padre



Ellos, tus hijos por el Bautismo que quizás yo les he dado en nombre de la Trinidad Santa, tus hijos que aprendieron a amarte desde los brazos maternales, ellos que te llaman a ti con el santo nombre de Padre, enseñados por Jesús mismo, me llaman a mí “Padre”, como a ti.



Nombre cariñoso y respetuoso que otros padres antes que yo se ganaron a pulso y lo hicieron costumbre, cultura, en tu pueblo santo.



Yo quiero ser digno de ese nombre y del cariño y el respeto que entraña. Quiero ser imagen fidedigna de tu paternidad divina.



Pero, no soy más que un pobre hombre limitado por condición de pecador.



Quiero ser santo



Soy sacerdote. Un hombre sacado de entre los demás hombres para ofrecerte sacrificios por mis propios pecados y por los de mis hermanos. Santifícame, Señor, para ser digno del sacerdocio santo de tu Hijo. Mira que mi maldad no hace juego con mi sacerdocio. Hazme santo para que no vaya a suceder que el que salva quede sin salvación. Hazme santo para poder ser un mejor instrumento de tu divina voluntad. Hazme santo a pesar mío, para mi propio bien y el de mis hermanos.

Generación 'ni-ni': ni estudia ni trabaja. Artículo publicado en el Diario Español "El País". Autor: José Luis Barbería


Generación 'ni-ni': ni estudia ni trabaja

Los jóvenes se enfrentan hoy al riesgo de un nivel de vida peor que el de sus padres - El 54% no tiene proyectos ni ilusión
JOSÉ LUIS BARBERÍA 22/06/2009
Tan preparados y satisfechos con sus vidas, y tan vulnerables y perdidos, nuestros jóvenes se sienten presa fácil de la devastación laboral, pero no aciertan a vislumbrar una salida airosa, ni a combatir este estado de cosas. El dato asomaba hace poco, sin estrépito, entre los resultados de la última encuesta de Metroscopia: el 54% de los españoles situados entre los 18 y los 34 años dice no tener proyecto alguno por el que sentirse especialmente interesado o ilusionado. ¿Ha surgido una generación apática, desvitalizada, indolente, mecida en el confort familiar? Los sociólogos detectan la aparición de un modelo de actitud adolescente y juvenil: la de los ni-ni, caracterizada por el simultáneo rechazo a estudiar y a trabajar. "Ese comportamiento emergente es sintomático, ya que hasta ahora se sobrentendía que si no querías estudiar te ponías a trabajar. Me pregunto qué proyecto de futuro puede haber detrás de esta postura", señala Elena Rodríguez, socióloga del Instituto de la Juventud (INJUVE).

La crisis ha venido a acentuar la incertidumbre en el seno de una generación que creció en un ámbito familiar de mejora continuada del nivel de vida y que ha sido confrontada al deterioro de las condiciones laborales: precariedad, infraempleo, mileurismo, no valoración de la formación. Las ventajas de ser joven en una sociedad más rica y tecnológica, más democrática y tolerante, contrastan con las dificultades crecientes para emanciparse y desarrollar un proyecto vital de futuro. Y es que nunca como hasta ahora, en siglos, se había hecho tan patente el riesgo de que la calidad de vida de los hijos de clase media sea inferior a la de los padres.

Ese temor ha empezado a extenderse, precisamente, entre la generación que de forma más abrumadora, siempre por encima del 80%, declara sentirse satisfecha con su vida. El virus del desánimo está minando la naturaleza vitalista y combativa de la gente joven aunque encontremos pruebas fehacientes individuales y colectivas de su consustancial espíritu de superación.

He aquí una muestra de resistencia a la adversidad extrema, junto a la prueba de cómo el discurso consumista ha resultado una trampa para tantos jóvenes audaces que creyeron en el maná crediticio y el crecimiento económico sin fin. "No podemos hacer frente a las hipotecas", resume Luis Doña, de 26 años, padre de una niña de 15 meses, presidente de la Asociación de Defensa de los Hipotecados, que pretende renegociar la deuda contraída con los bancos y recabar la ayuda de la Administración. Llevados por el entusiasmo de haber encontrado un empleo estable, como comercial de una multinacional, él y su compañera adquirieron hace cuatro años un crédito hipotecario de 180.000 euros a pagar en 30 años para comprar un piso. "Teníamos que abonar 800 euros al mes, pero es que ya estábamos pagando 600 de alquiler. Hace un año, de buenas a primeras, nos quedamos los dos sin trabajo y ya se nos ha agotado el paro. Hemos conseguido que el banco nos cobre únicamente los intereses de la deuda, pero es que son 560 euros al mes y no los tenemos, porque no nos sale nada. ¿Desmoralizados? Lo que estamos es desesperados y eso que nuestro caso no es tan dramático como el de otras familias que han sido desahuciadas, han tenido que refugiarse en casa de su madre o su suegra".

Eduardo Bericat, catedrático de Sociología de la Universidad de Sevilla, cree que la falta de ilusión hay que interpretarla, no tanto por los efectos de la crisis, como por el cambio cultural producido con anterioridad. "El modelo de vocación profesional que implicaba un proyecto vital de futuro y un destino final conocido, con sus esfuerzos y contraprestaciones, ha desaparecido. Ahora, la incertidumbre se impone en el trabajo y en la pareja y no está claro que la dedicación, el compromiso, el estudio o el título, vayan a tener su correspondiente compensación laboral y social", afirma. Si la pregunta clásica de nuestros padres y abuelos: "¿Y tú, que vas a ser?" pierde fundamento, se entiende mejor que los esfuerzos juveniles respondan, más que a la ilusión por un proyecto propio, al riesgo de quedar descartado. "Si no estudio, si no hago ese master...". Según el informe Eurydice, de la Unión Europea, sólo el 40% de los universitarios españoles tiene un trabajo acorde con sus estudios.

A los jóvenes no les resulta emocionalmente rentable comprometerse en un proyecto de vida definido porque piensan que estaría sometido a vaivenes continuos y que difícilmente llegaría a buen puerto. "Aplican la estrategia de flexibilizar los deseos y de restar compromisos; nada de esfuerzos exorbitantes cuando el beneficio no es seguro. Como el riesgo de frustración es grande, prefieren no descartar nada y definirse poco", explica Eduardo Bericat. A eso, hay que sumar un acusado pragmatismo -nuestros chicos son poco idealistas-, y lo que los expertos llaman el "presentismo", la reforzada predisposición a aprovechar el momento, "aquí y ahora", en cualquier ámbito de la vida cotidiana. De acuerdo con los estudiosos, esa actitud responde tanto a la sensación subjetiva de falta de perspectivas, como al hecho de que el alargamiento de la etapa juvenil invita a no desperdiciar "los mejores años de la vida" y a combinar el disfrute hedonista con la inversión en formación.

A falta de datos sobre el alcance del "síndrome ni-ni", el catedrático de Sociología de Sevilla explica que el pacto implícito entre el Estado, la familia y los jóvenes, pacto que compromete al primero a sufragar la educación y a la segunda a cargar con la manutención, alojamiento y ocio, hace creer a algunos jóvenes que en las actuales circunstancias pueden retrasar la toma de la responsabilidad. "Desarrollan una actitud nihilista porque no se les exige estar motivados, ni asumir responsabilidades y hay redes y paraguas sociales. En las convocatorias para cubrir plazas de becarios, me encuentro con aspirantes de treinta y tantos y hasta de cuarenta años, y lo curioso es que esos becarios se comportan como becarios. Es la profecía autocumplida. Si les llamas becarios y les pagas como tales terminarán convirtiéndose en becarios. Lo que me preocupa es la infantilización de la juventud", subraya.

"Los jóvenes de ahora no son capaces de arriesgar, son conservadores", constata Elena Rodríguez. ¿La tardía emancipación juvenil española (bastante por encima de los 30 años de media) es, sobre todo, fruto de la inestabilidad y precariedad del mercado laboral o consecuencia de ese supuesto conservadurismo? Aunque la diversidad y pluralidad de la juventud aconseja huir de las visiones unívocas, no se puede perder de vista que ellos no han tenido que vencer los obstáculos de las generaciones precedentes. "Miramos con descrédito la vida que nos ofrece la sociedad. Nuestros padres trabajaron mucho y se hipotecaron de por vida, pero tampoco les hemos visto muy felices. No es eso lo que queremos. La gente tiene pocas prisas para hacerse mayor", explica Letizia Tierra, voluntaria de una ONG. Por lo general, las personas que trabajan en asociaciones de ayuda juvenil tienden a repartir sus juicios con la medida de la botella medio llena, medio vacía.

"En el CIMO (Centro de Iniciativas de la Juventud) vemos apatía y falta de ilusión generalizada. Muchos de los 200.000 nuevos titulados universitarios anuales afrontan con pesimismo la búsqueda de empleo. Saben que hay un elevado porcentaje de puestos de cajeros, reponedores, almacenistas, dependientes, etcétera ocupados por diplomados o licenciados", afirma Yolanda Rivero, directora de esa asociación que atiende a diario a más de 600 jóvenes. Con todo, descubre también a muchos jóvenes capaces de adaptarse y de asumir retos y riesgos. "La generación JASP (jóvenes sobradamente preparados) tiene la ventaja de su mayor formación. A la vista del panorama, continúan formándose, viajan, trabajan, de camarero, si es preciso, para pagarse un master y aprovechan sus oportunidades, aunque, eso sí, en casa de papá y mamá hasta los 35 años, por lo menos".

El catedrático de Psicología Social Federico Javaloy, autor del estudio-encuesta de 2007, Bienestar y felicidad de la juventud española, cree probado que nuestros jóvenes no son apáticos y desilusionados, aunque lo estén, por contagio ambiental. "Lo que pasa es que rechazan el menú laboral que les ofrecemos. El fallo es nuestro, de nuestra educación y nuestros medios de comunicación", sostiene. Aunque las ONG encauzan en España las inquietudes que los partidos políticos son incapaces de acoger, tampoco puede decirse que la participación juvenil en ese campo sea extraordinaria. "Algo menos del 10% de los jóvenes participa en algún tipo de asociación, deportivas, en su mayoría, pero el porcentaje que lo hace en las ONG no llegará, seguramente, al 1%", indica el catedrático de Sociología de la UNED, José Félix Tezanos. Autor del estudio Juventud y exclusión social, Tezanos detecta entre los jóvenes una atmósfera depresiva, un proceso de disociación individualista, condensado en la expresión "sólo soy parte de mí mismo" y el debilitamiento de la familia. "Se está produciendo una gran quiebra cultural. Los componentes identitarios de los jóvenes no son ya las ideas, el trabajo, la clase social, la religión o la familia, sino los gustos y aficiones y la pertenencia a la misma generación y al mismo género; es decir: elementos microespaciales, laxos y efímeros", subraya.

El sociólogo de la UNED se pregunta hasta cuándo aguantará el colchón familiar español y qué pasará cuando se jubilen los padres que tienen a sus hijos viviendo en casa. A su juicio, el previsible declive de la clase media, la falta de trabajos cualificados -"el bedel de mi facultad es ingeniero", indica-, el becarismo rampante, la baja natalidad y el desfase en gasto social respecto a Europa están creando una atmósfera inflamable que abre la posibilidad de estallidos similares a los de Grecia o Francia. "Podemos asistir al primer proceso masivo de descenso social desde los tiempos de la Revolución francesa", augura.

Más apocalíptico se manifiesta Alain Touraine en el prólogo del libro de José Félix Tezanos. "Nuestra sociedad no tiene mucha confianza en el porvenir puesto que excluye a aquellos que representan el futuro" (...) "Se piensa que los jóvenes van a vivir peor que sus padres", escribe el intelectual francés. Y añade: "Avanzamos hacia una sociedad de extranjeros a nuestra propia sociedad" (...) "Si hay una tendencia fuerte, es que tendremos un mundo de esclavos libres, por un lado, y a un mundo de tecnócratas, por otro" (...) "Los jóvenes tienen que trabajar de manera tan competitiva, que se acaban rompiendo (...) No están sólo desorientados, es que, en realidad, no hay pistas, no hay camino, no hay derecha, izquierda, adelante, detrás".

Nadie parece saber, en efecto, con qué se sustituirá la vieja ecuación de la formación-trabajo-estatus estable, si, como pregonan estos sociólogos, la educación en la cultura del esfuerzo toca a su fin y gran parte de los empleos apenas darán para malvivir. Aunque estamos ante una generación pragmática que no ha soñado con cambiar el mundo, muchos estudiosos creen que la juventud no permitirá, sin lucha, la desaparición de la clase media. "El mundo que alumbró la Ilustración, la Revolución francesa y la Revolución industrial está agotado. La superproducción y la superabundancia material en estructuras de gran desigualad social carecen de sentido, hay que repensar muchas cosas, construir otra sociedad", afirma Eduardo Bericat.

Las dinámicas encaminadas a establecer nuevas formas de relaciones personales, la búsqueda de una mayor solidaridad y espiritualidad, más allá de los partidos y religiones convencionales, los intentos de combatir la crisis y de conciliar trabajo y familia, el ecologismo y hasta el nihilismo denotan, a su juicio, que algo se mueve en las entretelas de esa generación. "Son alternativas que, aisladamente, pueden resultar peregrinas, pero que, en conjunto, marcan la búsqueda de un nuevo modelo de sociedad", dice el profesor. ¿Será posible que esta juventud supuestamente acomodaticia y refractaria a la utopía sea la llamada a abrir nuevos caminos?